Blade Runner 2049, il futuro è fusion

Se il mondo immaginato da Dick era l’enorme periferia di una sconfinata megalopoli, il mondo di BR 2049 è un’immensa discarica, un gigantesco immondezzaio di rottami ferrosi, inframmezzato da zone contaminate. Scontato, ma non obbligatorio, il carattere ultra-distopico del soggetto. Sappiamo che l’umanità si è espansa nello spazio, il fantomatico ”extramondo”, che non ci è mai dato di vedere, ma a volte è citato come luogo di delizie ed a volte come luogo dove si impara a conoscere il dolore che non si è mai davvero conosciuto. È chiaro che l’espansione della civiltà nello spazio non è considerata, dagli sceneggiatori, che un dettaglio del tutto ininfluente sul piano sociale. Infatti la civiltà non ha affatto cambiato verso: l’ecosistema terrestre è chiaramente collassato, ben oltre la catastrofe ambientale, e l’umanità non sembra certo navigare nell’oro. Anche i privilegiati iper-tecnocrati vivono in una specie di inferno terreno. Dick scrisse la sua fantascienza distopica negli anni ‘60 del secolo scorso, con grande anticipo su quello che poi sarebbe diventato un filone floridissimo, innestandosi sulle ideologie verdi teorizzatrici dell’uomo distruttore della natura. Ma, se non ci avesse lasciati nel 1982, Dick apprezzerebbe questa visione ultra-distopica, incurante di qualsiasi variante dello sviluppo civile?

Indubbiamente un bel film, degno dell’illustre precedente. La prima parte troppo lenta. Non sono contrario in assoluto alla lentezza. C’è la lentezza del grande Celibidache, un vento poderoso che spinge sulle vele dell’orchestra con forza costante. C’è la lentezza di una grande macchina che, pur con i motori a tutta forza, impiega del tempo a guadagnare velocità, ad esempio in mare, o nello spazio, dovendo vincere l’inerzia. In tutti questi casi avvertiamo la potenza, e l’accelerazione che comunque ci inchioda al sedile, togliendoci il respiro per l’anticipazione… E c’è la lentezza di chi tergiversa, o forse cerca un po’ di ipnotizzare lo spettatore, prima di cominciare a cercare di shockarlo. Ho l’impressione che in questo caso siamo esposti più a questo tipo di lentezza che al primo. Certo, si potrebbe anche discutere se sia legittimo “continuare” l’opera di un grande e geniale scrittore come Philip Dick, dal cui capolavoro “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” era stato tratto il capolavoro cinematografico di Ridley Scott, Blade Runner. C’è addirittura, tra i critici, chi pensa che Ridley Scott abbia concesso volentieri la liberatoria per il sequel a Denis Villeneuve, pregustando sornione l’impietoso confronto… Comunque, una volta che il motore della storia è andato a regime, il film imbocca un buon ritmo, senza lesinare con il simbolismo, tanto che a volte sembra di essere stati catapultati in una pellicola di Alejandro Jodorowsky. Il nostro Joe va alla ricerca della sua “montagna sacra”, e di risposte alle proprie domande esistenziali. Lì trova il vecchio Harrison Ford, ma non voglio svelare troppo a chi non ha ancora visto il film, considerando che suspense ed intreccio sono due punti di forza di questo lavoro.

La colonna sonora si caratterizza prevalentemente come una sequenza di rumori molto forti, a sottolineare l’atmosfera cupa, dove non si vede mai il sole, e la natura è completamente scomparsa dal pianeta Terra. Indubbiamente mi manca molto Vangelis. Ma, in generale, del romanticismo del primo Blade Runner qui rimane solo una certa eco di nostalgia, che però non trova il tempo di comunicarsi, nonostante le tre ore abbondanti di durata del film. In questo, bisogna dire, il film esprime bene il carattere del nostro tempo. Qualsiasi sentimento romantico, compresa la nostalgia, sembra essere bandito: quella che si avverte non è tanto nostalgia, quanto un vago ricordo della nostalgia, che non riesce a commuovere. Come se, morta o morente la natura, qualsiasi sentimento fosse confinato in un limbo dal quale non riusciamo a portarlo fuori. Paradossalmente, le uniche a provare sentimenti, ed a versare qualche lacrima, sono proprio loro, le persone arificiali. Nate o create in un mondo senza sole, non sembrano averne bisogno per nutrire sentimenti fin troppo umani. E questa sembra già una dichiarazione di una specie pronta a succederci…

Se il mondo immaginato da Dick era l’enorme periferia di una sconfinata megalopoli, il mondo di BR 2049 è un’immensa discarica, un gigantesco immondezzaio di rottami ferrosi, inframmezzato da zone contaminate. Nel bel mezzo della zona nuclearizzata — forse a simboleggiare i miracoli continuamente evocati lungo lo svolgimento della trama — troviamo arnie di api jodorowskiane! Cosa vuole dirci Denis Villeneuve? Viene il sospetto che questa, come altre, sia solo una trovata dal sapore retrò-simbolista escogitata dai creativi che hanno contribuito al soggetto, per spiazzare la nostra percezione. E va bene, mettiamoci anche Brecht, e spiazziamoci pure. Mi piace essere spiazzato, quando mi si vuole predisporre a ricevere un concetto a mente aperta: se però mi si spiazza solo per aggiungere un po’ di pepe, che altrimenti non sboccia dal soggetto, allora mi sento un po’ preso per i fondelli.

Scontato, ma non obbligatorio, il carattere ultra-distopico del soggetto. Sappiamo che l’umanità si è espansa nello spazio, il fantomatico ”extramondo”, che non ci è mai dato di vedere, ma a volte è citato come luogo di delizie ed a volte come luogo dove si impara a conoscere il dolore che non si è mai davvero conosciuto. È chiaro che l’espansione della civiltà nello spazio non è considerata, dagli sceneggiatori, che un dettaglio del tutto ininfluente sul piano sociale. Infatti la civiltà non ha affatto cambiato verso: l’ecosistema terrestre è chiaramente collassato, ben oltre la catastrofe ambientale, e l’umanità non sembra certo navigare nell’oro. Anche i privilegiati iper-tecnocrati vivono in una specie di inferno terreno. Dick scrisse la sua fantascienza distopica negli anni ‘60 del secolo scorso, con grande anticipo su quello che poi sarebbe diventato un filone floridissimo, innestandosi sulle ideologie verdi teorizzatrici dell’uomo distruttore della natura.

Ma, se non ci avesse lasciati nel 1982, Dick apprezzerebbe questa visione ultra-distopica, incurante di qualsiasi variante dello sviluppo civile? Sarebbe interessante esplorare dickianamente una realtà in cui il maestro non è passato a miglior vita, e cura personalmente il soggetto di Blade Runner 2049… Forse un simile soggetto descriverebbe lo scenario che si potrebbe verificare nel caso la civiltà non si espandesse nello spazio. Un mondo chiuso e buio, dove la catastrofe eco-sociale sarebbe stata inevitabile. Oppure vorrebbe regalarci finalmente una visione sia pure prudentemente utopica, grazie all’avvenuta espansione nello spazio, ed al conseguente sviluppo a risorse virtualmente infinite?

Comunque, tornando alla storia che possiamo vedere oggi nelle sale, a modo suo, limitatamente, questo film propone anche un concetto di speranza positiva. In questo caso sono certo di non guastare la sorpresa a nessun futuro spettatore, visto che questo concetto ci viene rivelato fin dalle prime sequenze, ed intorno a questo concetto si sviluppa tutta la storia. Il primo cacciatore di androidi e la sua dolce amante androide ebbero un bambino. Grazie ad un incredibile quanto imprevisto sviluppo delle tecniche biocibernetiche, Rechel era infatti in grado di restare incinta e di partorire. E questo bambino è la speranza dell’umanità. Rappresenta la fusione tra intelligenza umana ed intelligenza artificiale. Una prospettiva che può tranquillizzare quanti temono che l’homo sapiens venga prima o poi soppiantato da una nuova specie artificiale, che prenderebbe il sopravvento così come i Sapiens fecero a danno dei Neandertal.

Il fatto che questo concetto di speranza sia affidato alla vita che si rinnova da’ un tocco umanista a questa storia: la nuova specie che si annuncia è pur sempre parte della natura. Un caso di vita intelligente che progetta e costruisce una specie superintelligente, integrando le capacità e le velocità di calcolo e di pensiero dell’elettronica (peraltro ormai completamente organica) con le capacità di intuizione e creatività dell’intelletto sapiens. Sarebbe lecito supporre che la superintelligenza sia poi in grado di comprendere appieno la convenienza infinitamente maggiore dell’etica, e della competizione leale, in un contesto (extramondo!) di risorse abbondanti, rispetto alla cattiveria ed alla sopraffazione nel mondo chiuso e limitato…

Tale superintelligenza saprà forse anche scrivere finalmente un soggetto cinematografico in cui si apprezza pienamente la differenza tra una civiltà implosa nel mondo chiuso, ed una che riprende a svilupparsi nel mondo aperto del sistema solare. Ma questa è una storia ancora tutta da scrivere.

Questo articolo è anche pubblicato su L’Avanti online. (http://www.avantionline.it/blade-runner-2049-la-speranza-e-la-vita-che-si-rinnova/)

Posted by ADRIANO AUTINO