Oltre i limiti dello sviluppo, oltre i limiti della cultura

La presentazione di Adriano Favole al convegno “Dialoghi sull’uomo” di Pistoia ripropone il tema dei “limiti dello sviluppo” proposto nel 1972 dal Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei. “La cultura si è rivelata nella storia dell’uomo uno straordinario strumento di evoluzione, ma quali sono i suoi limiti?” A questa domanda rispose già Krafft Ehricke, in un suo saggio, polemizzando proprio con il Club di Roma: “l’uomo non ha alcun limite al proprio sviluppo, tranne quelli autoimposti.”

“Gli esseri umani sono plasmati dalle culture di cui sono parte. La cultura si è rivelata nella storia dell’uomo uno straordinario strumento di evoluzione, ma quali sono i suoi limiti? Fino a che punto è consentito all’essere umano di trasformare la biologia e più in generale l’ambiente in cui è immerso? Già il mito di Prometeo metteva in guardia sui rischi della hybris, dell’“arroganza” delle tecniche, un tema oggi di straordinaria attualità nel campo, per esempio, delle tecnologie genetiche. Quali sono oggi le riflessioni sul limite nella nostra e nelle altre società? Il concetto di “antropocene”, su cui dialogano gli scienziati e gli studiosi del versante umanistico, mette l’accento proprio sul fatto che i poteri poietici della cultura umana sono così forti (e pericolosi) da intervenire sulle “leggi” che regolano la vita del nostro pianeta, al punto da trasformare il suo clima. È tempo di porre un freno alla capacità dell’uomo di plasmare il mondo?”

Questa è la presentazione della conferenza, dal titolo “Sui limiti della cultura”, tenuta dal Prof. Adriano Favole sabato 27, nell’ambito del convegno “Dialoghi sull’uomo”, che si svolge a Pistoia dal 26 al 28 Maggio. Il Prof. Favole insegna Antropologia culturale e Cultura e potere all’Università di Torino. I suoi ambiti di ricerca principali sono l’antropologia politica, l’antropologia del corpo e l’antropologia del patrimonio.

Dico subito che, leggendo un titolo come questo, mi viene l’orticaria psicosomatica… infatti rieccheggia un titolo molto simile, “I limiti dello sviluppo”, dato ad un testo pubblicato nel 1972. Si trattava, allora, di una ricerca commissionata dal Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei, all’MIT di Boston. Vi si teorizzava, preparando la strada ai movimenti ecologisti che si sarebbero sviluppati a seguire, che il nostro pianeta è una quantità finita di risorse, e che quindi non si può pensare che possa bastare all’infinito, per qualsiasi numero di persone, per qualsiasi modello di sviluppo in qualsiasi contesto sociale e culturale.

Prima domanda: è mai possibile che, a 45 anni di distanza, siamo ancora fermi a quella sconfortante, sia pur realistica, considerazione? Ormai le alternative, che consentirebbero di continuare lo sviluppo della nostra civiltà (per me sinonimo di cultura, quindi non sto a spaccare il capello per puntualizzare differenze inesistenti) dovrebbero essere note a tutti, e soprattutto ai luminari che pretendono di tenerci le loro lectio magistralis…

Viene da pensare che chi insiste nella sua dottrina pervicacemente precopernicana non voglia andare oltre. Sono maligno? Forse.

Tuttavia bisogna considerare che esiste, nel nostro paese in particolare, una vastissima pletora di intellettuali orfani del marxismo, la cui progettualità sociale è ritenuta ormai impresentabile in primo luogo proprio da coloro che la promuovevano in mille versioni e declinazioni, pur senza mai aderirvi chiaramente ed onestamente. Costoro non si sono mai ritrovati d’accordo tra di loro se non su un punto: l’odio profondo per il sistema capitalista, e la convinzione di dover dare una mano alla crisi. Segnatevi per favore questo concetto: dare una mano alla crisi, e non contro la crisi, perchè è di vitale importanza riconoscerne i sogetti e, soprattutto, gli effetti nefasti. Costoro si sono trovati bell’e pronta un’ideologia di riserva, che permette loro di continuare a perseguire l’affossamento dell’odiato sistema sociale che per altro li ha sinora nutriti, in molti casi anche più che dignitosamente, senza neanche più il fastidio di doversi produrre in improbabili iperboli socialisteggianti: il decrescitismo, ovvero la risposta verde ai limiti dello sviluppo su un pianeta solo.

Ma vediamo di rispondere punto per punto alle domande del Prof. Favole…

“La cultura si è rivelata nella storia dell’uomo uno straordinario strumento di evoluzione, ma quali sono i suoi limiti?”

A questa domanda rispose già Krafft Ehricke, in un suo saggio, polemizzando proprio con il Club di Roma: l’uomo non ha alcun limite al proprio sviluppo, tranne quelli autoimposti.

“Fino a che punto è consentito all’essere umano di trasformare la biologia e più in generale l’ambiente in cui è immerso?”

Quale sarebbe il “punto”, nel quale dovremmo pensare di fermarci? Seguendo la visione di Jeff Bezos, e di Gerard O’Neill prima di lui, basterà spostare progressivamente il nostro sviluppo industriale fuori dell’atmosfera terrestre — e le nuove tecnologie oggi rendono questi piani fattibilissimi — ed in prospettiva allenteremo la pressione sul nostro pianeta madre. Oltre a aprire uno sconfinato orizzonte di sviluppo per la nostra civiltà, obiettivo prioritario, in un’etica umanista.

“Già il mito di Prometeo metteva in guardia sui rischi della hybris, dell’“arroganza” delle tecniche, un tema oggi di straordinaria attualità nel campo, per esempio, delle tecnologie genetiche.”

E dagli una zampatina alle tecnologie genetiche!… tanto per strizzare l’occhio alla palude, alla sua avversione per la scienza, che oggi alza arrogantemente la testa… Arrogantemente, con piglio da Santa Inquisizione, costoro ci intimano di non proseguire gli studi sulla genetica.

La vera scienza è sempre stata umile, ha sempre riconosciuto che prima di provare a migliorare bisogna capire… ma se i tanti spiriti autenticamente umanisti, che hanno dedicato la loro vita al progresso della civiltà, avessero rinunciato a tentare di migliorare la natura, saremmo ancora fermi alle epidemie letali, alla morte per fame, al sottosviluppo. Un modello sociale forse per i decrescitisti preferibile all’odiato capitalismo…

“Quali sono oggi le riflessioni sul limite nella nostra e nelle altre società?”

Bravo professore, provi a darsi una risposta: ci serve oggi riflettere sui limiti, se non per superarli?

E qui arriviamo all’affondo finale, non poteva mancare il riferimento al climate change…

“Il concetto di “antropocene”, su cui dialogano gli scienziati e gli studiosi del versante umanistico, mette l’accento proprio sul fatto che i poteri poietici della cultura umana sono così forti (e pericolosi) da intervenire sulle “leggi” che regolano la vita del nostro pianeta, al punto da trasformare il suo clima. È tempo di porre un freno alla capacità dell’uomo di plasmare il mondo?”

Vi sono ovviamente tante risposte, che si affollano, ed aspettano solo di essere portate alla conoscenza di quanti affluiscono a questi convegni, cercandovi concetti di speranza e di fiducia nel futuro, e trovandovi solo cupe visioni di miseria e morte. Ne scelgo alcune, le più ovvie.

Ovviamente non possiamo porre un freno a qualcosa che non abbiamo neppure mai iniziato a fare… plasmare il mondo, ma quando mai? L’umanità è più o meno avanzata a casaccio, cercando le vie meno impervie ed apparentemente più redditizie. Cominceremo davvero a plasmare il mondo quando ne saremo parzialmente fuori, e quindi non saremo più costretti a decidere se dobbiamo mangiare, vivere e progredire oppure lasciare spazio alla “natura”. Cominceremo allora a plasmare questo pianeta come un immenso giardino, dove coltivare specie animali e vegetali, e persino crearne di nuove, per mezzo dell’ingegneria genetica, laddove la biodiversità si fosse ridotta, a causa della nostra precedente crescita nel mondo chiuso.

Un’ultima considerazione. Da alcune delle mie parole si potrebbe pensare che io ami particolarmente il capitalismo, come sistema sociale. Ebbene no, non particolarmente. In particolare non mi piace l’indifferenza verso chi soffre, verso chi non riesce a trovare una propria strada per campare, verso lo sfruttamento in genere, e la sua generale disponibilità, nella realtà cosidetta postindustriale, a rigurgiti schiavisti, autoritari e coercitivi. Tuttavia non è saggio rottamare l’unico modello sociale che finora, pur con tutte le sue storture, ci ha sfamato, prima di averne un altro…

Ci sono state rivoluzioni, nel secolo scorso, inevitabili, perchè si trattava di rovesciare delle tirannie. In quei casi il popolo sentiva che qualsiasi cosa, anche del tutto incognita, era preferibile al regime oppressivo cui era soggetto.

Sull’onda dell’entusiasmo rivoluzionario, in alcuni casi si è creduto di potersi proiettare a piè pari in nuovi sistemi sociali, teoricamente più giusti ed equi. La storia ha poi ampiamente dimostrato che la via che porta alla giustizia sociale, ad una società libera, solidale, inclusiva ed eticamente avanzata, probabilmente non ha un suo punto di arrivo su questo pianeta. Forse potremo traguardare un simile obiettivo nel contesto di una società del sistema solare, basata su un’abbondanza di risorse virtualmente infinita.

La storia ha infatti parimenti dimostrato che qualsiasi tentativo di socializzare la miseria porta solo alla tirannia, alla burocrazia, incubatrice di barbarie… Se invece sapremo traghettare la civiltàin un contesto di abbondanza di risorse, qualsiasi modello sociale innovativo diventa sperimentabile… e persino il capitalismo, come modello sociale, si potrà probabilmente migliorare, senza uccidere i suoi veri punti di forza: la libertà di impresa, la libertà di invenzione, la libertà di ricerca scientifica e filosofica, la cultura industriale, che ha permesso anche ai professori di campare bene, insegnando a milioni di figli di lavoratori….

Per il momento i valori sociali della rivoluzione borghese sono ancora gli unici difendibili, contro il tentativo di revanche neomedievale…

Adriano Autino

Articolo pubblicato su l’Avanti! online (http://www.avantionline.it/oltre-i-limiti-dello-sviluppo-oltre-i-limiti-della-cultura/)

Adriano Autino è presidente di Space Renaissance International (

Posted by ADRIANO AUTINO