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D-ORBIT ha lanciato in orbita il primo satellite spazzino

D-ORBIT ha lanciato in orbita il primo satellite spazzino

di Daniele Leoni

D-ORBIT ha lanciato D-Sat, un satellite con la capacità di rimuovere sé stesso dall’orbita, in maniera diretta e controllata, alla fine della missione grazie ad un dispositivo propulsivo integrato. Questa caratteristica innovativa è il fondamento di una nuova generazione di satelliti capaci di limitare la loro presenza in orbita a quanto necessario per completare la loro missione, in modo da prevenire l’accumulo di detriti spaziali. Il lancio è avvenuto questa mattina, venerdì 23 giugno, alle 5:59, dal cosmodromo Indiano Satish Dhawan Space Centre.  Lo ha annunciato Stefano Antonetti, Responsabile Commerciale della D-ORBIT, una società italiana che ha la sua sede operativa a Fino Mornasco in provincia di Como, e altre sedi, di cui una in Portogallo e una negli USA.

Proprio ora, mentre sto scrivendo, ricevo il messaggio tramite Skype da Stefano, dell’aggancio del segnale dal satellite già in orbita: “[11.00.54] Stefano  Antonetti: abbiamo agganciato il segnale [11.01.24] DANIELE LEONI: (champagne) [11.01.59] Stefano  Antonetti: appena adesso, al primo colpo. Scaricato telemetria . Ora ti mando un po’ di foto”.

E’ un lancio strategico nella storia del volo spaziale, dalla fase pionieristica verso la maturità.

Un lancio fatto giusto due giorni dopo il discorso del  famoso cosmologo inglese  Stephen Hawking: “se l’umanità non inizierà subito a lavorare per una prospettiva di colonizzazione dello spazio, sarà destinati a perire entro la fine del millennio!” Ha parlato a Trondheim, in Norvegia, al Starmus Festival 2017, nel crepuscolo del solstizio d’estate. Poi ha esposto le sue idee sull’esplorazione del cosmo profondo alla ricerca di nuovi mondi adatti a noi.

Così, una volta tanto, noi italiani ci distinguiamo per il pragmatismo che, in questo caso, significa incominciare ad eliminare i detriti lasciati in orbita e, soprattutto, non produrne di nuovi.

“D-Sat è una pietra miliare nel modo in cui gestiamo il problema dei detriti spaziali. Crediamo che tutto ciò che va in orbita debba essere rimosso non appena ha svolto il suo compito, e vogliamo fornire una soluzione pratica e conveniente per trasformare questa visione in realtà.” Continua Stefano Antonetti

“I detriti spaziali sono un insieme di oggetti di origine umana in orbita terrestre, come satelliti non funzionanti, razzi vettori, e altri oggetti rilasciati durante una missione spaziale. Secondo la NASA ci sono centinaia di migliaia di detriti di dimensione compresa tra 1 cm e 10 cm, e questo numero è destinato a crescere se si continua ad abbandonare satelliti non funzionanti in orbita. In una realtà che dipende sempre di più da tecnologie satellitari per applicazioni come l’osservazione remota del pianeta, le previsioni meteorologiche, la navigazione satellitare, la gestione di emergenze, l’agricoltura di precisione, e le auto senza pilota, è importante individuare soluzioni per ridurre la quantità di detriti spaziali in modo da ridurre il rischio di collisioni che potrebbero distruggere satelliti, compromettere servizi, e produrre ulteriori detriti.

D-Sat, costruito e operato da D-Orbit, è la prima dimostrazione orbitale di D-Orbit Decommissioning Device (D3), un sistema propulsivo intelligente progettato per rimuovere un satellite dall’orbita con una manovra diretta e controllata alla fine della missione, o in caso di malfunzionamento. Il sistema integrato all’interno di D-Sat può essere adattato a satelliti di ogni dimensione. Il nostro sogno è di installare un sistema di questo tipo in ogni nuovo satellite entro il 2025.”

D-Sat include tre esperimenti:  SatAlert, Debris Collision Alerting System (DeCas), e Atmosphere Analyzer. SatAlert serve a convalidare un tipico scenario di emergenza in cui agenzie di difesa civile devono comunicare istruzioni in aree colpite da disastri naturali che hanno compromesso le infrastrutture di telecomunicazione terrestri.  DeCas misura le dinamiche di distribuzione dei detriti associati con il rientro di un satellite, mettendo alla prova una modalità di distribuzione di questo tipo di informazione in tempo reale ad aerei in transito nella zona sottostante al rientro.

Atmosphere Analyzer è un esperimento che ha l’obiettivo di collezionare dati atmosferici nella bassa ionosfera, una regione compresa tra gli 80 km e 150 km poco studiata perché inaccessibile tanto da satelliti quanto da palloni stratosferici.”

Siccome, dovunque vogliamo andare nello spazio, dobbiamo passare dall’orbita terrestre, sarà meglio incominciare a fare pulizia.  “E dove potremo andare?” si chiede Stephen Hawking.  “La luna è vicina ma non ha atmosfera, è bruciata dal sole nelle 354 ore di giorno e gelata dalla notte siderale nelle 354 ore di buio. Ha un gravità troppo bassa per mantenere il calcio del nostro scheletro e non ha magnetosfera, col conseguente bombardamento di radiazioni nocive dal sole e dal cosmo profondo. Marte è più lontano anche se le condizioni nella sua superficie sono meno proibitive. Sappiamo che attorno a Proxima Centauri, la stella più vicina al nostro sole, c’è un pianeta che potrebbe assomigliare alla Terra ma per arrivarci, con la propulsione attuale, ci vorrebbero 3 milioni di anni.”

Allora bisogna attrezzarsi, incominciare col costruire qualche cosa di più concreto della attuale Stazione Spaziale ISS, che consenta a squadre di astronauti e di robot di costruire “un nodo di interscambio che abbiamo chiamato SpaceHub” come dice l’Ing. Rino Russo (https://www.avantionline.it/2017/06/una-comunita-di-1000-persone-in-area-cislunare-entro-30-anni); ”un sistema con 100 persone a bordo per condurre attività come ricerca, gestione della stazione, gestione degli arrivi (attracco) e delle partenze verso la Terra o altri nodi o per l’esplorazione verso Marte, e non ultimo per puro turismo.”

Sostanzialmente, in attesa di trovare un nuovo mondo, dobbiamo costruire in orbita bassa, ancora protetti dalla magnetosfera terrestre, un habitat dove vivere e lavorare. Dove fare ricerca e sviluppare una ingegneria adatta ad un ambiente che non è poi così totalmente ostile.  Assenza di atmosfera vuol dire assenza di vento, di intemperie, di corrosione, di ruggine;  assenza di peso vuol dire anche poter costruire strutture molto leggere, come immense superfici fotovoltaiche sottilissime, in grado di erogare Mega Watt di elettricità. Ma prima di tutto dobbiamo eliminare i rottami in orbita e non produrne di nuovi.

La società D-Orbit è fiero membro di Space Renaissance Italia, un’organizzazione culturale astronautico – umanistica nazionale, chapter italiano di Space Renaissance International (SRI), dedicata ad ampliare la consapevolezza che l’espansione umana nello spazio è fondamentale per la sostenibilità della civiltà attuale, della sua indispensabile crescita, e per la sopravvivenza della vita stessa. Preservare lo spazio attorno alla nostra Terra fruibile e sfruttabile da una societá umana proiettata oltre i confini della nostra atmosfera è una visione che accomuna strettamente D-Orbit e Space Renaissance.

Vedi questo articolo anche su l’Avanti! online (http://www.avantionline.it/d-orbit-ha-lanciato-in-orbita-il-primo-satellite-spazzino/)

Vedi anche: Sette milioni e mezzo di chili d’oro in orbita

Descrizione della foto

Lo staff di D-Orbit che ha curato il lancio del datellite D-Sat.

In alto da sinistra: Luca Rossettini (AD e fondatore), Renato Panesi (fondatore), Lorenzo Ferrario, Francesco Palumbo, Marco Bevilacqua, Angelo Dainotto, Caterina Cazzola, Monica Valli, Fabio del Principe, Giorgia Nardiello, Andrea Ferrante, Giuseppe Mele, Stefano Antonetti

In basso da sinistra: Marco Cazzaniga, Marco Marani, Simone Brilli, Lorenzo Vallini, Andrea Marcovati, Alessio Fanfani (PM di D-SAT), Aldo Cappelluti, Pietro Guerrieri.

Posted by ADRIANO AUTINO in Blog, News, Press, Stampa
Sette milioni e mezzo  di chili d’oro in orbita

Sette milioni e mezzo di chili d’oro in orbita

A partire dal 1957, si stima che siano stati effettuati 132 lanci orbitali all’anno, il che ci porta ad un totale di circa ottomila lanci. I satelliti censiti da UNOOSA ad agosto 2016 erano 4256, di cui solo 1419 (33%) operativi. Circa 18mila sono i rottami orbitali sufficientemente grandi (più di 10 cm.) da essere tracciati. Circa il 64% degli oggetti tracciabili sono frammenti risultanti da eventi distruttivi, quali esplosioni o collisioni. Esiste inoltre una popolazione molto più grande di detriti impossibili da monitorare in modo operativo. Nello spazio compreso tra l’orbita bassa (LEO, 300 km) e quella geostazionaria (GEO, 36mila km) viaggiano — a velocità orbitale — un numero stimato di 700.000 oggetti di dimensioni superiori a 1 cm e 170 milioni di oggetti di dimensioni superiori a 1 mm. Il che significa che la regione dello spazio vicina alla Terra si fa sempre più pericolosa, ma non è soltanto né soprattutto questo l’aspetto di cui voglio parlare oggi. Chi mi conosce per i miei interventi di carattere prevalentemente filosofico potrà essere sorpreso per questo articolo, che raggruppa una serie di considerazioni economiche e sociali. Voglio infatti dimostrare la convenienza — oggi, e non in un lontano futuro — di investire in attività industriali orbitali condotte da tecnici umani, rispetto ad operazioni completamente robotizzate. Di più, con buona pace di tutti quanti continuano ad avversare e temere l’espansione civile nello spazio esterno, basta analizzare minimamente l’ambiente di cui stiamo parlando, per capire che le attività più promettenti sono semplicemente non fattibili senza la presenza di operatori umani. Si tratta di una visione presentista, più che futurista: Space Renaissance (https://spacerenaissance.space/, http://spacerenaissance.it/), l’associazione internazionale che mi onoro di presiedere, promuove l’espansione civile nello spazio, per stimolare investimenti, rilanciare l’economia e sviluppare milioni di nuovi posti di lavoro oggi, e non in un lontano futuro…
i rottami spaziali: quando uno sfasciacarrozze orbitale?
Dunque partiamo dai rottami, o rifiuti spaziali, vale a dire oggetti che, secondo un’opinione molto comune, non hanno più alcun scopo utile. Ma è proprio vero? Facciamo due conti.
Il peso totale dei rottami spaziali ammonta a circa 7.500 tonnellate, cioè 7.5 milioni di chilogrammi. Il costo del trasporto terra-orbita si è mantenuto costante, negli ultimi 50 anni, intorno ai 20mila dollari al chilo, mantenuto alto anche da un vero e proprio cartello, costituito dalle grandi case costruttrici di razzi spendibili, raggruppate negli Stati Uniti nella ULA (United Launch Alliance). La storia recente vede la Cina e l’India posizionarsi con un prezzo dei payload tra i 10 ed i 25mila dollari al chilo. Ma è soltanto con l’avvento dei lanciatori riutilizzabili di Space X, che il monopolio dei razzi spendibili è stato infranto, innescando un processo rinascimentale di cui abbiamo visto sinora solo i primi passi. Quanto è costato mettere in orbita 7,5 milioni di chili di artefatti terrestri? A 20mila dollari al chilo, circa 150 miliardi di dollari. Se a questi aggiungiamo i costi di progettazione, costruzione e gestione, non è difficili arrivare ad un costo totale vicino al trilione di dollari. Considerando l’attuale prezzo dell’oro intorno ai 41mila dollari al chilo, è come dire che sulle nostre teste orbita un patrimonio paragonabile a 7,5 milioni di chili d’oro, se vogliamo vederla dal punto di vista economico. Se, come me, volete vederla anche dal punto di vista etico ed evolutivo della nostra civiltà, è come se avessimo voluto rinchiuderci in una gabbia dorata, senza peraltro avere ancora provveduto a sviluppare sistemi capaci di rimediare a questo disastro.
Si può anche sorridere, sebbene di un riso amaro. Avete presente i rifiuti delle grandi città terrestri? La situazione non è molto diversa: i rifiuti costituiscono una tragedia ambientale solo per chi non ha ancora deciso di utilizzarli. Per chi si è dotato degli opportuni impianti di riciclaggio, i rifiuti invece valgono oro! Oltretutto per chi possiede gli impianti il guadagno è doppio, visto che non soltanto produce energia e materiali di vario utilizzo, ma viene anche pagato per ricevere i rifiuti da chi non è attrezzato per utilizzarli! Possiamo ben immaginare come chi ha investito nell’industria del riciclo abbia sulla faccia un odioso ma comprensibilissimo sorrisino di sufficienza, quando considera l’ancora consistente schiera di gonzi che pagano per smaltire … la propria ricchezza!
Vi siete fatti il quadro, guardando a terra? Bene, adesso guardate in alto. Ci si rende subito conto che, per quanto riguarda i cosiddetti rifiuti spaziali, tutto il mondo è gonzo, e non sono ancora nate imprese capaci di investire negli impianti necessari alla raccolta, processamento e riuso di questa immensa ricchezza orbitale. Mettendo in orbita opportune officine modulari — l’esperienza fatta con la International Space Station è fondamentale — si potrà cominciare a catturare i rottami, separare i metalli dalla plastica, macinare i diversi componenti e ricavarne polveri, la materia “prima” per la stampa 3D. Cosa stiamo aspettando? Sono certo che il nostro Paese potrebbe essere all’avanguardia, su questo fronte, e potrebbe battere in volata altri che ancora non si stanno muovendo… forse perchè meno dotati della nostra sensibilità umanista, ed attenzione per le persone?
Il settore new space muove i primi passi anche nel nostro paese, ad esempio la D-ORBIT è una piccola azienda del comasco, che sviluppa un sistema per il de-commissioning dei satelliti al termine del ciclo di vita: un primo passo, finalizzato per intanto a non produrre nuovi rifiuti. Ma tutti i viaggi cominciano con un primo passo. Ed il fatto che in Italia ci sia chi ragiona ed opera a questo livello è molto confortante.
Decommissionare i nuovi satelliti per mezzo di appositi sottosistemi di bordo, mandandoli a bruciare al rientro in atmosfera, è una necessaria misura precauzionale, volta a limitare la produzione di nuovi rifiuti. Catturare rottami esistenti, e gettarli parimenti nell’ “inceneritore” del rientro in atmosfera risolverebbe il problema della bonifica orbitale. Il paragone con l’inceneritore ovviamente regge solo in parte, visto che dagli incineritori terrestri escono prodotti utili, mentre il rientro in atmosfera si limita a volatilizzare i rottami. Comunque, nel medio e lungo termine, si tratta di investimenti “a perdere”, nel senso che non puntano ad utilizzare la ricchezza costituita dai rottami spaziali, ma aggiungono semmai costi alla comunità terrestre. Economicamente parlando la distruzione dei rifiuti, tanto a terra come nello spazio, equivale a distruggere un grande valore. Senza contare che, comunque, per catturare rottami orbitali, già avremo bisogno di macchine capaci di manovre interorbitali, pilotate ed operate da operatori umani. Quindi tanto vale affrontare da subito un programma più ambizioso, e sviluppare contestualmente sia la raccolta sia gli impianti di processo e riutilizzo.
È chiaro che, con tale ampiezza di visione, stiamo includendo un numero ben maggiore di stakeholder: la sicurezza dei voli orbitali, e qualsiasi missione o trasporto merci o passeggeri deve passare per l’orbita terrestre, quale che siano la sua motivazione e destinazione, esplorazione o turismo, orbita bassa o le lune di Giove, ricerca o insediamento industriale, ecc…; ritorno di investimento a breve/medio termine; sviluppo industriale ed economico globale; benefici sociali, occupazione, sviluppo di nuovi mercati.
Officine, stazioni di servizio e fabbriche orbitali
E qui arriviamo alla seconda grande e promettente sfida presentista. Il recupero e riciclo dei rottami spaziali si connette fluidamente, senza soluzione di continuità, con un’altra grande attività industriale. Le nostre officine orbitali, già messe in cantiere con l’obiettivo di raccogliere e processare i rottami spaziali, si arricchiscono, e si differenziano, grazie ad un’altra funzione: l’assemblaggio di satelliti in orbita. Supportata da adeguati meccanismi robotizzati, la nostra officina si avvia a diventare una fabbrica di satelliti orbitale. Vi piace l’utilizzo di termini un po’ retrò, come “fabbrica”? Pur essendo fortemente proiettati all’innovazione rinascimentale, siamo anche estremamente coscienti di quanto dobbiamo ai nostri padri e nonni… che hanno dato il loro sudore e spesso anche la vita, edificando la civiltà industriale 1.0. E ci piace continuare ad usare certi termini, come un dovuto omaggio a quella civiltà che loro avevano costruito con speranza… all’alba del rinascimento della civiltà industriale 2.0, sperando e lottando perchè questa segni la fine della lunga recessione pre-era-spaziale.
Dunque, per gli investitori, l’assemblaggio di satelliti in orbita, ad opera di tecnici umani, porterà alla sostanziale riduzione almeno delle seguenti voci di spesa. In primo luogo occorre avere presente che ogni satellite assemblato a terra necessita di costosi automatismi per il dispiegamento di pannelli fotovoltaici ed antenne di comunicazione. Tali meccanismi automatici risultano inoltre molto costosi, perchè devono essere sufficientemente robusti da sopportare le grandi vibrazioni ed accelerazioni del lancio. Di tali meccanismi si potrebbe fare completamente a meno, se l’assemblaggio del satellite avvenisse in orbita, diminuendo anche il peso di quanto deve essere spedito in orbita. In secondo luogo, si consideri che, con la sola eccezione dei telescopi orbitali, qualsiasi manutenzione a satelliti risulta nel paradigma attuale troppo costosa, quindi impraticabile. Quindi la componentistica è molto costosa, perchè resistente alle radiazioni cosmiche, e rispondente ai requisiti di fault tolerance e fault avoidance più restrittivi. Le nostre officine orbitali potrebbero occuparsi sia della collocazione a destinazione dei satelliti, sia della loro manutenzione periodica ed eventuale riparazione, il che consentirebbe l’utilizzo di componentistica commerciale a costo molto minore. Ed, infine, le officine orbitali potrebbero provvedere al de-commissionamento a fine del ciclo di vita, quindi si risparmierebbero anche i sistemi automatici di decommissioning, almeno per le macchine di dimensioni maggiori. I sottosistemi di decommissioning dei satelliti più piccoli potrebbero essere programmati per rientrare alla più vicina stazione di raccolta, una volta a fine vita, anzichè per il rientro in atmosfera. Va da sé che la manutenzione periodica dei satelliti ne allungherebbe la vita, con conseguente ulteriore diminuzione dei costi complessivi e parallelo aumento della redditività.
Riassumendo: ogni automatismo che possiamo evitare di aggiungere a bordo satellite ne riduce i costi di progettazione, componentistica, sviluppo, testing, integrazione, lancio. Ma non è finita qui: avevamo parlato infatti di riciclo. E qui si chiude un primo cerchio: con i materiali in uscita dagli impianti di processo dei rottami alimentiamo le fabbriche orbitali, che possono produrre parti di satelliti in orbita per mezzo di stampa 3d, abbattendo ulteriormente i costi di sviluppo e lancio da terra! Ecco che la frontiera comincia a produrre in proprio, e quindi a dare inizio ad una vera e propria eso-economia, seppure ancora legata alla Terra da un robusto cordone ombelicale…
Dunque, abbiamo fin qui parlato solamente di due ricchissimi filoni industriali orbitali, il riciclo di rottami spaziali e l’assemblaggio di satelliti in orbita. Ma il più è cominciare! Una miriade di mestieri nasceranno intorno ed a supporto delle attività civili industriali nello spazio. Si pensi solo alla vastissima costellazione di lavori che sono nati in seguito allo sviluppo della rete di comunicazione mondiale ed allo sviluppo delle filiere energetiche rinnovabili… Paura dell’intelligenza artificiale? Non ha senso! Il mondo è talmente vario, e l’ambiente dello spazio esterno ancora di più, che non possiamo fare a meno dell’intelligenza, della creatività e della flessibilità degli umani — posto che farne a meno fosse conveniente, ed abbiamo visto che non lo è. Soprattutto non potremo mai chiedere ad una macchina, a parte accorgersi di un pericolo per il quale non era stata programmata, di avere intuizioni sulle potenzialità che diventano evidenti, in modi perlopiù imperscrutabili, alla mente umana, spesso riemergendo da una giornata di depressione e pessimismo… oppure davanti ad uno spettacolare sorgere dalle Terra azzurra dall’orizzonte lunare…
Dunque citiamo qui un po’ alla rinfusa, ma ci torneremo con maggior dettaglio, una serie di attività industriali tutte fattibili in un orizzonte di una ventina d’anni, grazie alle nuove tecnologie abilitanti, quali i sistemi di lancio riutilizzabili, e l’additive manufacturing: grandi impianti orbitali di raccolta di energia solare, stazioni di rifornimento per trasporti geo-lunari ed interplanetari, impianti di processo di materie prime lunari ed asteroidee, hotel orbitali, lunari e cislunari, cantieri orbitali per l’assemblaggio di navi spaziali a varia destinazione, ospedali a bassa e zero gravità, attività minerarie estrattive lunari ed asteroidee, villaggi orbitali rotanti, infrastrutture lunari di ricerca, esplorazione, industriali.
Tutto questo apre un altro capitolo, che occorre urgentemente affrontare: il diritto spaziale, fermo al Trattato sull’Uso Pacifico dello Spazio Esterno, di cui ricorre quest’anno il 50mo anniversario. Anche di questo parleremo presto.
Ad Astra!
Adriano Autino
Ringrazio Stefano Antonetti, marketing manager di D ORBIT, per i suoi commenti sul tema rottami spaziali
Leggete questo articolo anche su l’Avanti! online. (http://www.avantionline.it/sette-milioni-e-mezzo-di-chili-doro-in-orbita/)
Adriano Autino è autore dei seguenti libri:
“Un mondo più grande è possibile. L’espansione della civiltà oltre i limiti del nostro pianeta madre è la questione morale del nostro tempo”
“La terra non è malata: è incinta!”
Arduino Sacco 2008
Posted by ADRIANO AUTINO in Blog, News, Stampa
Oltre i limiti dello sviluppo, oltre i limiti della cultura

Oltre i limiti dello sviluppo, oltre i limiti della cultura

“Gli esseri umani sono plasmati dalle culture di cui sono parte. La cultura si è rivelata nella storia dell’uomo uno straordinario strumento di evoluzione, ma quali sono i suoi limiti? Fino a che punto è consentito all’essere umano di trasformare la biologia e più in generale l’ambiente in cui è immerso? Già il mito di Prometeo metteva in guardia sui rischi della hybris, dell’“arroganza” delle tecniche, un tema oggi di straordinaria attualità nel campo, per esempio, delle tecnologie genetiche. Quali sono oggi le riflessioni sul limite nella nostra e nelle altre società? Il concetto di “antropocene”, su cui dialogano gli scienziati e gli studiosi del versante umanistico, mette l’accento proprio sul fatto che i poteri poietici della cultura umana sono così forti (e pericolosi) da intervenire sulle “leggi” che regolano la vita del nostro pianeta, al punto da trasformare il suo clima. È tempo di porre un freno alla capacità dell’uomo di plasmare il mondo?”

Questa è la presentazione della conferenza, dal titolo “Sui limiti della cultura”, tenuta dal Prof. Adriano Favole sabato 27, nell’ambito del convegno “Dialoghi sull’uomo”, che si svolge a Pistoia dal 26 al 28 Maggio. Il Prof. Favole insegna Antropologia culturale e Cultura e potere all’Università di Torino. I suoi ambiti di ricerca principali sono l’antropologia politica, l’antropologia del corpo e l’antropologia del patrimonio.

Dico subito che, leggendo un titolo come questo, mi viene l’orticaria psicosomatica… infatti rieccheggia un titolo molto simile, “I limiti dello sviluppo”, dato ad un testo pubblicato nel 1972. Si trattava, allora, di una ricerca commissionata dal Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei, all’MIT di Boston. Vi si teorizzava, preparando la strada ai movimenti ecologisti che si sarebbero sviluppati a seguire, che il nostro pianeta è una quantità finita di risorse, e che quindi non si può pensare che possa bastare all’infinito, per qualsiasi numero di persone, per qualsiasi modello di sviluppo in qualsiasi contesto sociale e culturale.

Prima domanda: è mai possibile che, a 45 anni di distanza, siamo ancora fermi a quella sconfortante, sia pur realistica, considerazione? Ormai le alternative, che consentirebbero di continuare lo sviluppo della nostra civiltà (per me sinonimo di cultura, quindi non sto a spaccare il capello per puntualizzare differenze inesistenti) dovrebbero essere note a tutti, e soprattutto ai luminari che pretendono di tenerci le loro lectio magistralis…

Viene da pensare che chi insiste nella sua dottrina pervicacemente precopernicana non voglia andare oltre. Sono maligno? Forse.

Tuttavia bisogna considerare che esiste, nel nostro paese in particolare, una vastissima pletora di intellettuali orfani del marxismo, la cui progettualità sociale è ritenuta ormai impresentabile in primo luogo proprio da coloro che la promuovevano in mille versioni e declinazioni, pur senza mai aderirvi chiaramente ed onestamente. Costoro non si sono mai ritrovati d’accordo tra di loro se non su un punto: l’odio profondo per il sistema capitalista, e la convinzione di dover dare una mano alla crisi. Segnatevi per favore questo concetto: dare una mano alla crisi, e non contro la crisi, perchè è di vitale importanza riconoscerne i sogetti e, soprattutto, gli effetti nefasti. Costoro si sono trovati bell’e pronta un’ideologia di riserva, che permette loro di continuare a perseguire l’affossamento dell’odiato sistema sociale che per altro li ha sinora nutriti, in molti casi anche più che dignitosamente, senza neanche più il fastidio di doversi produrre in improbabili iperboli socialisteggianti: il decrescitismo, ovvero la risposta verde ai limiti dello sviluppo su un pianeta solo.

Ma vediamo di rispondere punto per punto alle domande del Prof. Favole…

“La cultura si è rivelata nella storia dell’uomo uno straordinario strumento di evoluzione, ma quali sono i suoi limiti?”

A questa domanda rispose già Krafft Ehricke, in un suo saggio, polemizzando proprio con il Club di Roma: l’uomo non ha alcun limite al proprio sviluppo, tranne quelli autoimposti.

“Fino a che punto è consentito all’essere umano di trasformare la biologia e più in generale l’ambiente in cui è immerso?”

Quale sarebbe il “punto”, nel quale dovremmo pensare di fermarci? Seguendo la visione di Jeff Bezos, e di Gerard O’Neill prima di lui, basterà spostare progressivamente il nostro sviluppo industriale fuori dell’atmosfera terrestre — e le nuove tecnologie oggi rendono questi piani fattibilissimi — ed in prospettiva allenteremo la pressione sul nostro pianeta madre. Oltre a aprire uno sconfinato orizzonte di sviluppo per la nostra civiltà, obiettivo prioritario, in un’etica umanista.

“Già il mito di Prometeo metteva in guardia sui rischi della hybris, dell’“arroganza” delle tecniche, un tema oggi di straordinaria attualità nel campo, per esempio, delle tecnologie genetiche.”

E dagli una zampatina alle tecnologie genetiche!… tanto per strizzare l’occhio alla palude, alla sua avversione per la scienza, che oggi alza arrogantemente la testa… Arrogantemente, con piglio da Santa Inquisizione, costoro ci intimano di non proseguire gli studi sulla genetica.

La vera scienza è sempre stata umile, ha sempre riconosciuto che prima di provare a migliorare bisogna capire… ma se i tanti spiriti autenticamente umanisti, che hanno dedicato la loro vita al progresso della civiltà, avessero rinunciato a tentare di migliorare la natura, saremmo ancora fermi alle epidemie letali, alla morte per fame, al sottosviluppo. Un modello sociale forse per i decrescitisti preferibile all’odiato capitalismo…

“Quali sono oggi le riflessioni sul limite nella nostra e nelle altre società?”

Bravo professore, provi a darsi una risposta: ci serve oggi riflettere sui limiti, se non per superarli?

E qui arriviamo all’affondo finale, non poteva mancare il riferimento al climate change…

“Il concetto di “antropocene”, su cui dialogano gli scienziati e gli studiosi del versante umanistico, mette l’accento proprio sul fatto che i poteri poietici della cultura umana sono così forti (e pericolosi) da intervenire sulle “leggi” che regolano la vita del nostro pianeta, al punto da trasformare il suo clima. È tempo di porre un freno alla capacità dell’uomo di plasmare il mondo?”

Vi sono ovviamente tante risposte, che si affollano, ed aspettano solo di essere portate alla conoscenza di quanti affluiscono a questi convegni, cercandovi concetti di speranza e di fiducia nel futuro, e trovandovi solo cupe visioni di miseria e morte. Ne scelgo alcune, le più ovvie.

Ovviamente non possiamo porre un freno a qualcosa che non abbiamo neppure mai iniziato a fare… plasmare il mondo, ma quando mai? L’umanità è più o meno avanzata a casaccio, cercando le vie meno impervie ed apparentemente più redditizie. Cominceremo davvero a plasmare il mondo quando ne saremo parzialmente fuori, e quindi non saremo più costretti a decidere se dobbiamo mangiare, vivere e progredire oppure lasciare spazio alla “natura”. Cominceremo allora a plasmare questo pianeta come un immenso giardino, dove coltivare specie animali e vegetali, e persino crearne di nuove, per mezzo dell’ingegneria genetica, laddove la biodiversità si fosse ridotta, a causa della nostra precedente crescita nel mondo chiuso.

Un’ultima considerazione. Da alcune delle mie parole si potrebbe pensare che io ami particolarmente il capitalismo, come sistema sociale. Ebbene no, non particolarmente. In particolare non mi piace l’indifferenza verso chi soffre, verso chi non riesce a trovare una propria strada per campare, verso lo sfruttamento in genere, e la sua generale disponibilità, nella realtà cosidetta postindustriale, a rigurgiti schiavisti, autoritari e coercitivi. Tuttavia non è saggio rottamare l’unico modello sociale che finora, pur con tutte le sue storture, ci ha sfamato, prima di averne un altro…

Ci sono state rivoluzioni, nel secolo scorso, inevitabili, perchè si trattava di rovesciare delle tirannie. In quei casi il popolo sentiva che qualsiasi cosa, anche del tutto incognita, era preferibile al regime oppressivo cui era soggetto.

Sull’onda dell’entusiasmo rivoluzionario, in alcuni casi si è creduto di potersi proiettare a piè pari in nuovi sistemi sociali, teoricamente più giusti ed equi. La storia ha poi ampiamente dimostrato che la via che porta alla giustizia sociale, ad una società libera, solidale, inclusiva ed eticamente avanzata, probabilmente non ha un suo punto di arrivo su questo pianeta. Forse potremo traguardare un simile obiettivo nel contesto di una società del sistema solare, basata su un’abbondanza di risorse virtualmente infinita.

La storia ha infatti parimenti dimostrato che qualsiasi tentativo di socializzare la miseria porta solo alla tirannia, alla burocrazia, incubatrice di barbarie… Se invece sapremo traghettare la civiltàin un contesto di abbondanza di risorse, qualsiasi modello sociale innovativo diventa sperimentabile… e persino il capitalismo, come modello sociale, si potrà probabilmente migliorare, senza uccidere i suoi veri punti di forza: la libertà di impresa, la libertà di invenzione, la libertà di ricerca scientifica e filosofica, la cultura industriale, che ha permesso anche ai professori di campare bene, insegnando a milioni di figli di lavoratori….

Per il momento i valori sociali della rivoluzione borghese sono ancora gli unici difendibili, contro il tentativo di revanche neomedievale…

Adriano Autino

Articolo pubblicato su l’Avanti! online (http://www.avantionline.it/oltre-i-limiti-dello-sviluppo-oltre-i-limiti-della-cultura/)

Adriano Autino è presidente di Space Renaissance International (

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