Se il mondo immaginato da Dick era l’enorme periferia di una sconfinata megalopoli, il mondo di BR 2049 è un’immensa discarica, un gigantesco immondezzaio di rottami ferrosi, inframmezzato da zone contaminate. Scontato, ma non obbligatorio, il carattere ultra-distopico del soggetto. Sappiamo che l’umanità si è espansa nello spazio, il fantomatico ”extramondo”, che non ci è mai dato di vedere, ma a volte è citato come luogo di delizie ed a volte come luogo dove si impara a conoscere il dolore che non si è mai davvero conosciuto. È chiaro che l’espansione della civiltà nello spazio non è considerata, dagli sceneggiatori, che un dettaglio del tutto ininfluente sul piano sociale. Infatti la civiltà non ha affatto cambiato verso: l’ecosistema terrestre è chiaramente collassato, ben oltre la catastrofe ambientale, e l’umanità non sembra certo navigare nell’oro. Anche i privilegiati iper-tecnocrati vivono in una specie di inferno terreno. Dick scrisse la sua fantascienza distopica negli anni ‘60 del secolo scorso, con grande anticipo su quello che poi sarebbe diventato un filone floridissimo, innestandosi sulle ideologie verdi teorizzatrici dell’uomo distruttore della natura. Ma, se non ci avesse lasciati nel 1982, Dick apprezzerebbe questa visione ultra-distopica, incurante di qualsiasi variante dello sviluppo civile?
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Iniziando con le considerazioni più generali, l’Intelligenza Artificiale (IA) fa parte degli sviluppi tecnico-scientifici cosiddetti GRAIN (Genetics, Robotics, Artificial Intelligence, and Nanotechnology), tutti molto promettenti, ma che, come ho già scritto più volte in passato, ed anche nel mio ultimo libro “Un mondo più grande è possibile!”, di cui riporto qui un passo, hanno tutti un grave handicap. “L’economia terrestre è ormai fallita, le Industrie terrestri non possono più crescere né svilupparsi oltre. L’ulteriore sviluppo della scienza terrestre nel mondo chiuso potrà fare miracoli, come sempre, ma il loro effetto sarà di breve durata, conferendo alla civiltà forse pochi anni di apparente ripresa dalla crisi. La caduta successiva sarà peggio, se il mondo dovesse restare chiuso. In mancanza di spazio lo stesso sviluppo tecnologico potrà imboccare strade involutive, tendenti a deprimere l’iniziativa, la creatività e lo spirito di avventura che da sempre caratterizza la nostra specie. Infatti, in un contesto di fabbisogni energetici mortificati dalla scarsità di risorse, il sistema non potrà che tendere alla staticità, all’immobilismo fisico e quindi culturale, all’equilibrio, forse, ma l’equilibrio della vecchiaia e della morte.